mercoledì 30 gennaio 2013

Ciao Remigio, siamo ritornati !

Ciao Remigio, siamo ritornati !

Quando l'associazione 'Quelli del Cagnan' ha deciso di resuscitare Il Nuovo Cagnan,  prima in rete, poi con il 'roseo foglio' tipografato, una sottile malinconia si è impadronita delle mie vecchie
membra..... Quanti ricordi !
Ma non vorremmo dedicare queste poche righe al solo elenco di chi ci ha rimesso, nelle disavventure editoriali del roseo foglio, quasi le penne ! Vi saranno  incontri , per presentare il sodalizio e ricominciare una avventura, tutta basata sull'ironia del 'mi no vado a combatar' di Forcolinianamemoria.
Chissà se riusciremo, nei tempi mutati, ad aprire uno spazio per davvero libero.....
Noi ci crediamo....
Buona lettura
 la redazione di Quelli del Cagnan


storica 02

Spiriti inquieti,Spiriti Liberi : Maccari,il Selvaggio e Treviso

Spiriti inquieti,Spiriti Liberi : Maccari, il Selvaggio e Treviso

Il Selvaggio è una rivista ideata da Angiolo Bencini, un ex-ufficiale e vinaio, ras di Poggibonsi, che ne inizia la pubblicazione a Colle Val d'Elsa, in provincia di Siena il 13 luglio 1924.
La rivista esce dopo due anni dalla marcia su Roma e dopo un mese dall'assassinio di Matteotti e riporta sotto la testata del primo numero la qualifica di Battagliero fascista.
Mino Maccari, giovane laureato in legge e già esperto xilografo e incisore ne diventa il redattore e in seguito direttore.
Dal 1924 al 1925 Il Selvaggio presenta caratteri chiaramente squadristi, agrari e bastonatori come si può leggere sul numero del 12 ottobre 1924 nell'editoriale Botte ai liberali, o sul numero del 9 novembre 39 milioni di legnate e ancora sul numero del 18 maggio 1925 Selvaggia provincia svegliati!.
Nel 1926 la rivista viene assunta da Maccari e cambiano molte cose. La crisi Matteotti era intanto stata superata e il Duce aveva dato, alla Mostra del Novecento, la parola d'ordine di "normalizzare la vita pubblica".
Stralcio da Addio al passato
Gli episodi politici o pseudopolitici, i loro sviluppi e le loro vicende, non ci interessano più (...). Noi sentiamo bene che oggi non è permesso a chiunque fare della politica. Col fascismo, la politica è arte di Governo, non di partito (...).
Non c'è che l'arte. L'arte è l'espressione suprema dell'intelligenza di una stirpe. Una rivoluzione è anzitutto e soprattutto un atteggiamento e un orientamento dell'intelligenza. Dunque dalla produzione artistica noi avremo l'indice del valore d'una rivoluzione. Il discorso del Duce alla Mostra del Novecento conferma tale concetto: esso ha pesato in modo decisivo sulla crisi del Selvaggio, il cui atteggiamento aveva già tutti i caratteri d'una manifestazione artistica; sicché nessun potrà meravigliarsi dell'avere il Selvaggio chiuso il suo periodo squadristico ed eletto a compito d'una sua nuova vita la coltivazione dell'arte.
In questo modo, dopo numerosi contrasti, escono dal gioco politico e sarà il Maccari stesso a pubblicare, nell'articolo di fondo intitolato "Addio al passato" il nuovo indirizzo del Selvaggio che non intende più essere l'esempio di un fascismo agonistico ma una rivista che deve dedicarsi all'arte, alla satira e alla risata politica.
Il Selvaggio avrà una periodo fiorentino, tra il marzo 1926 e il dicembre del 1930, una parentesi torinese tra il 30 gennaio e il 30 dicembre 1931 e un periodo romano dal 31 marzo 1932 al 1943 e da tutte e tre i periodi riuscirà a trarre un intelligente vigore per le sue battaglie che difendono, tra tolleranza e censura, l'autonomia dell'arte e il diritto dell'attività culturale di "ridere" della politica, fatto quest'ultimo che costerà alla rivista numerosi casi di sequestro.
Il Selvaggio tralascia i protagonisti dell'arte di stato come Oppo, Marinetti e Ojetti e punta su veri artisti anche se poco graditi al regime o addirittura sconosciuti. Hanno così spazio sui fogli de "Il Selvaggio" artisti come Giorgio Morandi, Luigi Spazzapan, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi e tra i narratori, Arrigo Benedetti, Aldo Buzzi, Mario Tobino, Romano Bilenchi, Luigi Bartolini, Elsa Morante e Guglielmo Petroni. La rivista non dispensa inoltre gli attacchi contro i firmatari della Protesta Croce, l'antisemitismo di Ardengo Soffici e la polemica contro i redattori di Solaria.

Nel 1935 il Quartiere di San Nicolò viene sventrato

Nel 1935 il Quartiere di San Nicolò viene sventrato


LO SVENTRAMENTO DI S.NICOLO' A TREVISO : UNO SCEMPIO DENUNCIATO DALLA RIVISTA 'IL SELVAGGIO' NEL 1935
Utili considerazioni per la speculazione d'oggi

Mino Maccari seguì nelle pagine della sua rivista (Il Selvaggio),le opere del regime nel settore edilizio. La critica contro l'architettura razionale è dura.Nella rivista vengono pubblicate fotografie di case,edifici pubblici,progetti di intervento per sistemare pizze e strade di diverse città italiane ed europee. In particolare in una rubrica (significativamente intitolata " Il cemento disarmato"),vengono esaminate le realizzazioni "...più pacchiane del fascismo e del suo architetto di fiducia  Marcello Piacentini." nel numero 4 del 15 luglio 1935 il Selvaggio n.107 "...lamenta lo sventramento del quattrocentesco quartiere di San Nicolò a Treviso,operazione in stile fatta da piccoli uomini di sensibilità scarsanete italiana, allo scopo di 'conservare' un mediocre incarico, di far credere all'insostituibilità'.Nella postilla di risposta la redazione individua le cause  nella 'smania del nuovo...da ritenersi in relazione con una specie di larvato,involonatario,incosciente rancore verso forme di libertà che pur rispecchiano una grandezza soltanto nostra,italiana e in 'vanità locali'.
Molte piazze e quartieri sono sorti per pura speculazione senza alcun rispetto per l'ambiente e per l'architettura.Questa polemica,tutta interna al clima culturale dell'epoca,fa venire in mente una polemica attuale : il centro storico in mano alle finanziarie,ai gruppi economici ( Hotel Treviso,Locanda Moretto,ecc.).Gli esempi potrebbero moltiplicarsi,andando a toccare i santuari della Treviso-bene (guai a toccare questo argomento : sono le stesse persone che hanno fatto tanto bene a Treviso!). Le manovre speculative che si evidenziano dietro gli interventi che negli anni '30 distruggono intere zone medioevali e rinascimentali,venivano condotte in nome della razionalità.Quale ideologia utilizzano i signori d'oggi? Forse quella delle campagne di utilità sociale per vendere le magliette ?
(Il Nuovo Cagnan,gennaio 1994)

Chiesa di San Nicolò La facciata

Cinquantanni fa la legge Merlin aboliva le "case chiuse". Viaggio nella Treviso dei bordelli.

Cinquantanni fa la legge Merlin aboliva le "case chiuse". Viaggio nella Treviso dei bordelli.


Ci andavano tutti. Anche il prete, e non per confessare. Ma quanto a parlarne... Resta quel racconto di Gigi Meneghello che, bambino, scoprì che la vecchia abitazione di famiglia era stata bordello. «Non so gnente, mai stà», disse il papà. Ma alla successiva domanda, «era bello?», rispose: «Orca! Tuto un spècio». Di bordelli, nella Marca, ce n'erano molti. Più d'uno a Conegliano, Montebelluna. E Oderzo, Castelfranco... Ma quelli epici erano a Treviso, dove l'intera Cae de Oro, nei pressi del tempio di San Nicolò, era un'Amsterdam. A 50 anni da quel 20 settembre 1958 che... chiuse le case chiuse, è difficile capire come, a quei tempi, andare in bàito fosse normale. Gli uomini ci andavano, le consorti fingevano di non sapere. O di non capire quando, l'omo decideva di fare un salto in città «par comprarme un capèl». Il cappello lo comprava. Anche. Il dopoguerra fece giustizia dalla parte del santo (Nicolò): i bombardamenti, la speculazione, la legge Merlin, operarono il miracolo del disinnesco della «Cae», quartiere ultrapopolare che era stato l'ombelico (vizioso, ma gli ombelichi sono così) di Treviso. Calle dell'Oro, via Castelmenardo, via delle Oche (ora via Toniolo), la città tra il Duomo e San Nicolò, ospitavano i bàiti più famosi. A Dotto Comisso dedicò il racconto d'addio alle signorine. Ma erano il Baito de'a Bianca (angolo Calle dell'Oro e via delle Oche) a essere il più noto. Alla porta c'era la Nene, cui Bepi Stocco, nicoloto, dedicò un capitolo nel libro «Gente delle calli». La Nene, in cambio di 20 centesimi, consentiva ai non maggiorenni di entrare «per dare un'occhiata». Il profumo di peccato bastava sei mesi. Due salottini per attendere: lì aspettavano le pensionanti, quattro, i cui nomi (anzi, i nomi delle tre più belle) ancora si tramandano: la bellissima Diana, la Maruska vestita di velo, la Elena pietosa. C'era poi il casino della Ada, proprio a metà della Calle dell'Oro (entrata defilata per maggiorenti e... clero - in via Isola di Mezzo). La Ada, toscana, era sposata Camporini. Il marito fu grande benefattore della Calle, ma il prete sconfessò la mensa per gli orfani che Guido mise in cortile dopo il bombardamento del 7 aprile 1944: commercio di corpi e tutela di anime non sono mai andati in sintonia. E a poco vale ricordare che, quando il prete arrivava par fare i so comodi come gli umani (ma lui transitando per da drio e protetto da un paravento) i flanelloni che si trovavano in salòn, per nulla inconsapevoli, lo sbeffeggiavano con un sonoro «sialodàtogesucrìsto». A venti metri dal lupanare della Ada c'erano altri tre casini. Quello della Menta, di la cui facciata esterna era un piatrellato verde lucido che giustificava il nome. Qui l'ingresso a chi era sensa na s-ciona in berta, ovvero un centesimo in tasca, era interdetto, perchè «cuesto xè un casìn par vaschi». Davanti alla Menta c'era il casino della Leda. E anche qui si pagava molto e il trattamento era a cinque stelle. Poi c'era il Piccolo Eden, vicinissimo alla Leda, che, stando alle testimonianze di Bepi Stocco e del grande Mirko Trevisanello, che ci ha lasciato tra gli altri libri, un monumentale «Cae de Oro» aveva la particolarità di ospitare «donne d'una certa condizione, fenmmine dell'alta società di Treviso, sposate e magari con figli», che poi ricomparivano in piazza, a passeggio, sottobraccio al poro e caro beco. Ci andavano, in genere, di mattina, quando il povero allocco era in ufficio. Anch'esse esercitavano in una sìmari (gergo nicoloto: camera), ma ad aspettarle lassù c'era già qualcuno a loro noto. Quella camera era, magari, un po' meno brulla di quella che Comisso immortalò, dismessa, il 20 settembre del '58. Non c'erano, naturalmente, solo questi casini. Epico era, ad esempio, quella in via Roggia. E un altro era accanto alla Pescheria, affacciato sull'antica corte-chiostro di San Parisio. E non c'erano solo i bàiti ufficiali, quelli con il carabiniere fuori per smistare i siori da un ingresso discreto e i poareti dall'altro (uno di quei carabinieri è ancora vivo e narrante). C'erano anche le «case», quelle che ospitavano una o due donne, già clandestine e non controllate, di ogni livello
e prezzo, dalle singole perbene (quasi) della Mianese alla mitica Maria Orbèta, che, pure con l'occhio convergente, era una Mata Hari de noaltri. E poi c'era la «libera professione» che si esercitava, come oggi si fa lungo le Statali, allora sulle mura. Da cui la famosa frase delle mamme ai bambini che chiedevano soldi per qualche sfizio: «Varda che mi i s-chei no i trovo mia su e mura».
( da La Tribuna, 29 agosto 2008)
 
 

Un ricordo di Comisso curato dal libraio-scrittore Virgilio Scapin


Treviso, 9 dicembre 2005. Giovanni Comisso non ha mai goduto di grandi fortune editoriali. In vita e in morte i suoi libri non sono mai diventati best-seller o long-seller, almeno secondo gli attuali parametri, anche se i suoi estratti conto non erano poi così disastrosi come lui amava far credere. Ingrata sorte riservata a uno dei maggiori scrittori del nostro tempo, vincitore di grandi premi letterari quali il Bagutta e lo Strega. La sua prosa fresca, chiara, accattivante, i suoi intrecci esemplari avrebbero meritato maggior fortuna presso il grande pubblico.
Giovanni amava coltivare questa specie di maledizione che gravava sulla sua produzione letteraria, la ingigantiva per compiangersi coram populo, e si consolava collaborando a riviste mediche che lo pagavano lautamente e facendo il corrispondente per importanti quotidiani nazionali. Quando metteva da parte qualche soldo, aveva la fantasia di fare degli investimenti non eccessivamente mirati. Naturalmente anche questi autogol andavano a rinforzare le sue geremiadi, e la querelle continuava. Questa sempre più proclamata miseria era fonte perenne di invettive contro i suoi editori, rei di non curarsi abbastanza dei suoi libri.
Un giorno ero andato a trovarlo nella sua casa di Santa Maria del Rovere, alla periferia di Treviso. Era un pomeriggio piuttosto caldo, Giovanni lavorava nell'orto. Era contento, la stagione finalmente buona. Stava cavando le cipolle. Volle che le mangiassi subito all'inpiedi per dargli un giudizio sulla loro qualità. Fu felice dei miei complimenti: «Quest'anno non moriremo di fame - mi disse ammiccando - La terra è la nostra grande madre», e aveva allargato lo sguardo sull'orto come se contemplasse una campagna estesa fino all'orizzonte. Su un muretto erano allineate alcune pollastre bianche, morte, tutte uguali. Visto il mio interessamento per quello strano spettacolo, si era avvicinato bisbigliando: «Bisogna arrangiarsi, con i tempi che corrono. Ho assoldato una banda di ladri di polli. Noi poveri siamo costretti a rubare». La Giovanna, la sua ottantenne governante aveva alzato le braccia al cielo implorando la divina misericordia.
Un suo ammiratore siculo aveva la buona abitudine di mandargli ogni anno una cassa di limoni lunari, e quel cadeau campeggiava per giorni sulla tavola a testimonianza del buon cuore dell'estimatore, il quale aveva capito le difficoltà finanziarie in cui si dibatteva il grande scrittore.
Un giorno, invece, gli arrivò dall'estremo nord una cassa contenente un trancio di balena. Nonostante fosse stata spedita via aerea, la mercanzia era un po' provata dal viaggio ed emanava un intollerabile fetore. Comisso aveva chiamato a consulto Pàciara, il pescivendolo suo amico. La balena, con il suo aspetto verdastro e il suo afrore, mandava inequivocabili messaggi di decomposizione.
«Butémo via tuto», aveva sentenziato l'esperto. «Ma è un regalo di un mio ammiratore», aveva proclamato lo scrittore in presunta miseria.
Furono chiamati attorno al trancio di cetaceo cuochi e cuoche. Anche Alfredo Beltrame che, all'epoca, stava inaugurando la catena dei Toùla. L'ammorbante balena aveva impestato la casa. La Giovanna invocava l'aiuto degli amici dello scrittore: «El me fa morire», diceva in pianto.
«È un insulto alla miseria buttarla via» insisteva Giovanni, fiero che anche all'estremo nord si fosse a conoscenza del suo stato di indigenza. Quando si accorse che l'artica generosità allontanava i suoi amici da casa, organizzò un solenne funerale. Seppellirono la balena nel suo orto.
Comisso aveva un segretario; lo aveva battezzato Gigetto Figallo. D'aspetto era uno zingaro, con i capelli nerissimi. Girava sempre con una chitarra e cantava canzoni gitane con rara perizia. Comisso non era mai sicuro di cominciare un viaggio né di finirlo, perché Gigetto spesso scompariva; lo chiamavano nelle osterie, dove continuava a suonare dimentico dei suoi impegni.
Giovanni non era molto generoso con questo suo addetto alla segreteria, e lui provvedeva a rimpinguare le sue modeste mercedi in vari modi. Fuori dalla porta di casa era installato un distributore di benzina. Gigetto si serviva della pompa per riempire di nascosto taniche di carburante che vendeva sottobanco.
Un pomeriggio ero in partenza con Comisso e Alfredo Beltrame per un giro in Friuli dove eravamo attesi da padre Turoldo. Io ero seduto accanto al guidatore; sui sedili posteriori erano Giovanni e Alfredo. Questi aveva piazzato sulle ginocchia una cassetta di frutta vuota su cui aveva steso un foglio di carta che doveva servire a raccogliere i cahiers de vojage. Gigetto era sparito. Eravamo fermi da un quarto d'ora, quando mi accorsi che la pompa stava ancora erogando benzina. Balzai fuori dalla macchina: «La benzina, la benzina!» gridai. Gigetto mi fece gli occhiacci; lungo il muretto si vedevano file di taniche che lui stava riempendo: la sua futura mercede. Comisso amava immensamente la campagna. Nel 1932 aveva comprato un pezzo di terra con una vecchia casa colonica a Zerobranco, e aveva commissionato al suo grande amico Arturo Martini un San Bovo in terracotta da mettere all'entrata della stalla, com'era consuetudine presso i contadini. Il Maestro aveva inventato un teatrino spartito a metà: a sinistra tre boari inginocchiati imploravano la protezione del Santo sulle due bestiole impalcate a destra. Nella cornice era graffiato il nome del committente.
In seguito, Giovanni aveva venduto i campi ed era tornato a Treviso portando con sé la formella. Questa mirabile terracotta, scampata a mille traslochi e peripezie, un bel giorno saltò fuori dallo scantinato, la Fonda di Juan, della casa di Santa Maria del Rovere. Gigetto l'aveva nascosta lì in attesa di poterla vendere con profitto a qualche intenditore.
Alla morte di Comisso, il citaredo venne a trovarmi con gli occhi lustri: «Quel capolavoro - diceva - merita una collocazione degna del suo padrone». Io ne parlai a Carlo Pavesi della Banca Popolare Vicentina. Incuriosito dalla provenienza, «Portamela in ufficio - mi aveva detto - voglio vederla». Ma Gigetto non voleva separarsene; temeva che qualcuno vi allungasse le mani.
La Banca, infine, decise di acquistare l'opera. Avevo accompagnato Figallo nell'ufficio del Direttore. A lui bastò un'occhiata per convincersi dell'affare. Gigetto si era improvvisamente rappacificato. Ma quando Pavesi mise mano al blocchetto degli assegni, lo zingaro aveva fatto un passo indietro allarmato: «Schèi, schèi - ripeteva - O schèi o niente». Come se stesse vendendo vacche vere.




L'anima di un popolo

L'anima di un popolo   versione testuale
Il nuovo libro di Sante Rossetto: "Il Cagnan. Satira, società e costume a Treviso"
Un’altra pagina di storia felicemente riproposta da Sante Rossetto attento lettore ed intelligente interprete della realtà veneta. Della Marca, soprattutto. Un altro spaccato di pura trevigianità. Autentica. Schietta. Perché la satira è autenticità e schiettezza. Ne “Il Cagnan. Satira, società e costume a Treviso” (Cierre edizioni, Verona, Novembre 2009, 12 euro), c’è tutta l’anima di un popolo nella prima metà del Novecento, ma anche, come nota lo stesso Rossetto, “un panorama universale”, “valido a Treviso come in qualsiasi altra parte del mondo”.
 
Quel foglio rosa, ironico e beffardo, vivace e frizzante, caustico e scanzonato, bastian contrario e pungente, mordace per elezione, mai offensivo, che “definire satirico è limitare nella sua importanza”, con l’immediatezza e la chiarezza giornalistica che già il suo fondatore - Adolfo Pesenti - e chi a lungo l’ha diretto - Remigio Forcolin - gli hanno infuso, attraversa tutto il Novecento trevigiano. Una finestra aperta sulla città. Uno dei “monumenti” che ne raccontano la storia.
Periodo difficile quello che vede la nascita de “Il Cagnan”. Anche Treviso, scenario privilegiato della Grande guerra, vive nella precarietà di un difficile dopoguerra alla ricerca di una definitiva stabilità. Nella Marca, come in tutta Italia, comincia a spirare il vento fascista e il panorama politico è animato da forti fermenti che giungono da socialisti, clerico-moderati, popolari, socialdemocratici, repubblicani. Ognuno con una propria strategia. Ognuno con una propria ricetta attorno al capezzale di un’Italia malata. Fragile e affamata. Disorientata. Stordita dalla tragedia bellica appena finita.
In così tanto bailamme di un dibattito politico talvolta dai toni aspri e decisi, anche “Il Cagnan” si schiera. A modo suo. Come “organo ufficioso degli intellettuali”, interpreta il ruolo di chi vuol ragionare con con la propria testa. Senza mezzi termini e ambiguità, i suoi redattori tengono a precisare che preferiscono la chiarezza, che sono “per il comunismo o meglio per il collettivismo della intelligenza”, che vogliono “che gli uomini sieno o tutti intelligenti o tutti cretini in modo che nessuno possa speculare sul suo prossimo”.
Una filosofia deliberatamente adottata. Più redditizia dei mille comizi che infiammano la piazza. Tutta imperniata sulla volontà di “prendere la vita con ironia e allegria. Quella degli altri e la propria”. Una scelta che garantisce un successo inaspettato, anche da altri periodici contemporanei e concorrenti.
“Il Cagnan è diverso per acume e originalità. E’ agile e leggero. Disinvolto. Ardito. Talvolta spavaldo. Si direbbe educatamente sfrontato”, così lo presenta Rossetto.
Le tante “rubriche” che di anno in anno arricchiscono il giornale sono veri capolavori di genialità, come del resto le tante vignette che corredano gli articoli. Vere pillole di storia, indispensabili per rileggere Treviso nei suoi pregi e nei suoi difetti, nel suo lento risollevarsi dalla precarietà del primo dopoguerra, sino a diventare capitale di una Marca sempre più gioiosa, in un alternarsi di vicende belle e di altre meno, proposte dal grande gioco della storia
I personaggi animano il giornale, felici invenzioni di redattori di vero talento, conferiscono a quel foglio distribuito il sabato sera, fresco della stampa delle officine grafiche di Vianello, quel sapore genuino del pane appena sfornato.
Creature che sono la voce del popolo, come Rosina che incarna con il piglio e il parlare senza peli sulla lingua quel mondo reale di chi “da mane a sera”, per tutto l’anno, deve arrabattarsi tra mille difficoltà per sbarcare il lunario nell’amara constatazione che anche “cola democrazia in pieno viluppo: chi è mona resta mona e chi camina sono quelli che dimostrano di avere nela succa del sale e non solla semolla!”, ma anche nella speranza che qualcosa cambi perché “se va avanti cossì andiamo a remengo con tole e cavaletti!”.
 
Ma chi non ride... muore in castigo
O come Policarpo attraverso i cui occhi il lettore scopre aspetti nascosti e biasimevoli, denuncia vizi e vezzi, legge con il filtro di un’ironia sempre raffinata la quotidianità. Non c’è scampo per nessuno, soprattutto per eruditi o presunti tali, notabili e politici, intellettuali e parrucconi, laici e religiosi, per i tanti perditempo e “ciacoloni”, per benpensanti e bigotti, trasformisti e voltagabbana, umili e vanitosi, sempre con l’obiettivo di una tanto salutare quanto sarcastica risata come sollecita l’allegra traduzione del motto “castigat ridendo mores” con “Chi non ride muore in castigo”.
Ma, quando è il caso, “Il Cagnan” sa intenerirsi e intenerire, commuoversi e commuovere, sollecitare a sentimenti d’amor patrio le generazioni future, come ad esempio nel decennale della battaglia del Montello.
Sa leggere la preoccupazione della povera gente nel tormentato secondo dopoguerra, dei trentamila disoccupati della Marca, del migliaio e passa di minatori emigrati in Belgio. Ha la forza per denunciare il contrabbando di generi di prima necessità e il cinismo di chi lucra sulla miseria dei poveri. Sa far suo lo sfogo di che pensa che “par essar sempre sta onesto, go tribolà e tirà la careta mentre i altri i se la spassa” o la disillusa conclusione di Pantalon che credeva che con la caduta del fascismo e l’arrivo della cosiddetta libertà tutto sarebbe cambiato, ma che invece i parlamentari “i se perde in pancianae inveçe de tendarghe a le robe serie e concludar qualcossa de bon” e guardano soltanto al loro tornaconto perché “quando che i xe arivai a sentarse su quela caregheta ognun varda de far i so afari e che el resto vada a remengo”. Valutazione rinforzata dalla Rosina che non salva nessun partito: “I monarchici sono quelli che «possono spendere», i repubblicani «ci hanno la disgrazia di essere dei disperati che alle volte per fare franco ci mancano 99 centesimi», i democristiani per loro basta quartese e andare alla messa ultima per vedere la moda”.
Oggi “Il Cagnan” non c’è più. La sua storia editoriale tra sospensioni ed improvvise rinascite si ferma nel 1994.
Di quel foglio resta soltanto il suo spirito libero e indipendente. Senza riguardo per nessuno.
Restano quelle pagine di storia che altri non hanno mai raccontato. Non avevano la forza o il coraggio o più semplicemente l’intelligente onestà per farlo.
 
 







Giovedi 11 Febbraio 2010
Mario Cutuli in 'La Vita del Popoloì

Il Nuovo Cagnan torna a 'ruggire', libero più che mai


In occasione della rassegna informativa Le Giornate del Buon Evento, l'Associazione l'Altratavola, grazie al suo network informativo, uscirà con una nuova edizione del 'roseo foglio' trevigiano, ossia Il Nuovo Cagnan.
Il giornale satirico, fondato e diretto da Remigio Forcolin, era stato una presenza 'irriverente' e libera nel panorama della stampa 'allineata'.
" La scelta di editare Il Nuovo Cagnan si motiva con la ricerca della nostra associazione - osserva Renzo Lupatin-, di lasciare un segno culturale, dopo le iniziative di informazione sviluppate nei singoli territori del gusto".



La Pescheria di
quadri medoro coghetto cagnan ponte de pria treviso
Medoro Coghetto (1707-1793)
Il Cagnan al Ponte de Pria
Treviso, Museo Civico L. Bailo