Un ricordo di Comisso curato dal libraio-scrittore Virgilio Scapin
Treviso, 9 dicembre
2005. Giovanni Comisso non ha mai goduto di grandi fortune editoriali.
In vita e in morte i suoi libri non sono mai diventati best-seller o
long-seller, almeno secondo gli attuali parametri, anche se i suoi
estratti conto non erano poi così disastrosi come lui amava far
credere. Ingrata sorte riservata a uno dei maggiori scrittori del
nostro tempo, vincitore di grandi premi letterari quali il Bagutta e lo
Strega. La sua prosa fresca, chiara, accattivante, i suoi intrecci
esemplari avrebbero meritato maggior fortuna presso il grande pubblico.
Giovanni amava
coltivare questa specie di maledizione che gravava sulla sua produzione
letteraria, la ingigantiva per compiangersi coram populo, e si
consolava collaborando a riviste mediche che lo pagavano lautamente e
facendo il corrispondente per importanti quotidiani nazionali. Quando
metteva da parte qualche soldo, aveva la fantasia di fare degli
investimenti non eccessivamente mirati. Naturalmente anche questi
autogol andavano a rinforzare le sue geremiadi, e la querelle
continuava. Questa sempre più proclamata miseria era fonte perenne di
invettive contro i suoi editori, rei di non curarsi abbastanza dei suoi
libri.
Un giorno ero andato
a trovarlo nella sua casa di Santa Maria del Rovere, alla periferia di
Treviso. Era un pomeriggio piuttosto caldo, Giovanni lavorava
nell'orto. Era contento, la stagione finalmente buona. Stava cavando le
cipolle. Volle che le mangiassi subito all'inpiedi per dargli un
giudizio sulla loro qualità. Fu felice dei miei complimenti: «Quest'anno non moriremo di fame - mi disse ammiccando - La terra è la nostra grande madre»,
e aveva allargato lo sguardo sull'orto come se contemplasse una
campagna estesa fino all'orizzonte. Su un muretto erano allineate
alcune pollastre bianche, morte, tutte uguali. Visto il mio
interessamento per quello strano spettacolo, si era avvicinato
bisbigliando: «Bisogna arrangiarsi, con i tempi che corrono. Ho assoldato una banda di ladri di polli. Noi poveri siamo costretti a rubare». La Giovanna, la sua ottantenne governante aveva alzato le braccia al cielo implorando la divina misericordia.
Un suo ammiratore
siculo aveva la buona abitudine di mandargli ogni anno una cassa di
limoni lunari, e quel cadeau campeggiava per giorni sulla tavola a
testimonianza del buon cuore dell'estimatore, il quale aveva capito le
difficoltà finanziarie in cui si dibatteva il grande scrittore.
Un giorno, invece,
gli arrivò dall'estremo nord una cassa contenente un trancio di balena.
Nonostante fosse stata spedita via aerea, la mercanzia era un po'
provata dal viaggio ed emanava un intollerabile fetore. Comisso aveva
chiamato a consulto Pàciara, il pescivendolo suo amico. La balena, con
il suo aspetto verdastro e il suo afrore, mandava inequivocabili
messaggi di decomposizione.
«Butémo via tuto», aveva sentenziato l'esperto. «Ma è un regalo di un mio ammiratore», aveva proclamato lo scrittore in presunta miseria.
Furono chiamati attorno al trancio di cetaceo cuochi e cuoche. Anche Alfredo Beltrame che, all'epoca, stava inaugurando la catena dei Toùla. L'ammorbante balena aveva impestato la casa. La Giovanna invocava l'aiuto degli amici dello scrittore: «El me fa morire», diceva in pianto.
«È un insulto alla miseria buttarla via»
insisteva Giovanni, fiero che anche all'estremo nord si fosse a
conoscenza del suo stato di indigenza. Quando si accorse che l'artica
generosità allontanava i suoi amici da casa, organizzò un solenne
funerale. Seppellirono la balena nel suo orto.
Comisso aveva un
segretario; lo aveva battezzato Gigetto Figallo. D'aspetto era uno
zingaro, con i capelli nerissimi. Girava sempre con una chitarra e
cantava canzoni gitane con rara perizia. Comisso non era mai sicuro di
cominciare un viaggio né di finirlo, perché Gigetto spesso scompariva;
lo chiamavano nelle osterie, dove continuava a suonare dimentico dei
suoi impegni.
Giovanni non era
molto generoso con questo suo addetto alla segreteria, e lui provvedeva
a rimpinguare le sue modeste mercedi in vari modi. Fuori dalla porta di
casa era installato un distributore di benzina. Gigetto si serviva
della pompa per riempire di nascosto taniche di carburante che vendeva
sottobanco.
Un pomeriggio ero in partenza con Comisso e Alfredo Beltrame
per un giro in Friuli dove eravamo attesi da padre Turoldo. Io ero
seduto accanto al guidatore; sui sedili posteriori erano Giovanni e Alfredo.
Questi aveva piazzato sulle ginocchia una cassetta di frutta vuota su
cui aveva steso un foglio di carta che doveva servire a raccogliere i
cahiers de vojage. Gigetto era sparito. Eravamo fermi da un quarto
d'ora, quando mi accorsi che la pompa stava ancora erogando benzina.
Balzai fuori dalla macchina: «La benzina, la benzina!» gridai.
Gigetto mi fece gli occhiacci; lungo il muretto si vedevano file di
taniche che lui stava riempendo: la sua futura mercede. Comisso amava
immensamente la campagna. Nel 1932 aveva comprato un pezzo di terra con
una vecchia casa colonica a Zerobranco, e aveva commissionato al suo
grande amico Arturo Martini un San Bovo in terracotta da mettere
all'entrata della stalla, com'era consuetudine presso i contadini. Il
Maestro aveva inventato un teatrino spartito a metà: a sinistra tre
boari inginocchiati imploravano la protezione del Santo sulle due
bestiole impalcate a destra. Nella cornice era graffiato il nome del
committente.
In seguito, Giovanni
aveva venduto i campi ed era tornato a Treviso portando con sé la
formella. Questa mirabile terracotta, scampata a mille traslochi e
peripezie, un bel giorno saltò fuori dallo scantinato, la Fonda
di Juan, della casa di Santa Maria del Rovere. Gigetto l'aveva nascosta
lì in attesa di poterla vendere con profitto a qualche intenditore.
Alla morte di
Comisso, il citaredo venne a trovarmi con gli occhi lustri: «Quel
capolavoro - diceva - merita una collocazione degna del suo padrone».
Io ne parlai a Carlo Pavesi della Banca Popolare Vicentina. Incuriosito
dalla provenienza, «Portamela in ufficio - mi aveva detto - voglio vederla». Ma Gigetto non voleva separarsene; temeva che qualcuno vi allungasse le mani.
La Banca,
infine, decise di acquistare l'opera. Avevo accompagnato Figallo
nell'ufficio del Direttore. A lui bastò un'occhiata per convincersi
dell'affare. Gigetto si era improvvisamente rappacificato. Ma quando
Pavesi mise mano al blocchetto degli assegni, lo zingaro aveva fatto un
passo indietro allarmato: «Schèi, schèi - ripeteva - O schèi o niente». Come se stesse vendendo vacche vere.
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