Cinquantanni fa la legge Merlin aboliva le "case chiuse". Viaggio nella Treviso dei bordelli.
Ci andavano tutti. Anche il prete, e non per confessare. Ma quanto a
parlarne... Resta quel racconto di Gigi Meneghello che, bambino, scoprì
che la vecchia abitazione di famiglia era stata bordello. «Non so
gnente, mai stà», disse il papà. Ma alla successiva domanda, «era
bello?», rispose: «Orca! Tuto un spècio». Di bordelli, nella Marca, ce
n'erano molti. Più d'uno a Conegliano, Montebelluna. E Oderzo,
Castelfranco... Ma quelli epici erano a
Treviso, dove l'intera
Cae de
Oro,
nei pressi del tempio di San Nicolò, era un'Amsterdam. A 50 anni da
quel 20 settembre 1958 che... chiuse le case chiuse, è difficile capire
come, a quei tempi, andare in bàito fosse normale. Gli uomini ci
andavano, le consorti fingevano di non sapere. O di non capire quando,
l'omo decideva di fare un salto in città «par comprarme un capèl». Il
cappello lo comprava. Anche. Il dopoguerra fece giustizia dalla parte
del santo (Nicolò): i bombardamenti, la speculazione, la legge Merlin,
operarono il miracolo del disinnesco
della «
Cae», quartiere ultrapopolare che era stato l'ombelico (vizioso, ma gli ombelichi sono così) di
Treviso. Calle dell'
Oro,
via Castelmenardo, via delle Oche (ora via Toniolo), la città tra il
Duomo e San Nicolò, ospitavano i bàiti più famosi. A Dotto Comisso
dedicò il racconto d'addio alle signorine. Ma erano il Baito de'a
Bianca (angolo Calle dell'
Oro
e via delle Oche) a essere il più noto. Alla porta c'era la Nene, cui
Bepi Stocco, nicoloto, dedicò un capitolo nel libro «Gente delle
calli». La Nene, in cambio di 20 centesimi, consentiva ai non
maggiorenni di entrare «per dare un'occhiata». Il profumo di peccato
bastava sei mesi. Due salottini per attendere: lì aspettavano le
pensionanti, quattro, i cui nomi (anzi, i nomi delle tre più belle)
ancora si tramandano: la bellissima Diana, la Maruska
vestita di velo, la Elena pietosa. C'era poi il casino
della Ada, proprio a metà
della Calle dell'
Oro
(entrata defilata per maggiorenti e... clero - in via Isola di Mezzo).
La Ada, toscana, era sposata Camporini. Il marito fu grande benefattore
della
Calle, ma il prete sconfessò la mensa per gli orfani che Guido mise in
cortile dopo il bombardamento del 7 aprile 1944: commercio di corpi e
tutela di anime non sono mai andati in sintonia. E a poco vale
ricordare che, quando il prete arrivava par fare i so comodi come gli
umani (ma lui transitando per da drio e protetto da un paravento) i
flanelloni che si trovavano in salòn, per nulla inconsapevoli, lo
sbeffeggiavano con un sonoro «sialodàtogesucrìsto». A venti metri dal
lupanare
della Ada c'erano altri tre
casini. Quello
della
Menta, di la cui facciata esterna era un piatrellato verde lucido che
giustificava il nome. Qui l'ingresso a chi era sensa na s-ciona in
berta, ovvero un centesimo in tasca, era interdetto, perchè «cuesto xè
un casìn par vaschi». Davanti alla Menta c'era il casino
della
Leda. E anche qui si pagava molto e il trattamento era a cinque stelle.
Poi c'era il Piccolo Eden, vicinissimo alla Leda, che, stando alle
testimonianze di Bepi Stocco e del grande Mirko Trevisanello, che ci ha
lasciato tra gli altri libri, un monumentale «
Cae de
Oro» aveva la particolarità di ospitare «donne d'una certa condizione, fenmmine dell'alta società di
Treviso,
sposate e magari con figli», che poi ricomparivano in piazza, a
passeggio, sottobraccio al poro e caro beco. Ci andavano, in genere, di
mattina, quando il povero allocco era in ufficio. Anch'esse
esercitavano in una sìmari (gergo nicoloto: camera), ma ad aspettarle
lassù c'era già qualcuno a loro noto. Quella camera era, magari, un po'
meno brulla di quella che Comisso immortalò, dismessa, il 20 settembre
del '58. Non c'erano, naturalmente, solo questi
casini.
Epico era, ad esempio, quella in via Roggia. E un altro era accanto
alla Pescheria, affacciato sull'antica corte-chiostro di San Parisio. E
non c'erano solo i bàiti ufficiali, quelli con il carabiniere fuori per
smistare i siori da un ingresso discreto e i poareti dall'altro (uno di
quei carabinieri è ancora vivo e narrante). C'erano anche le «case»,
quelle che ospitavano una o due donne, già clandestine e non
controllate, di ogni livello
e prezzo, dalle singole perbene (quasi) della Mianese alla mitica Maria
Orbèta, che, pure con l'occhio convergente, era una Mata Hari de
noaltri. E poi c'era la «libera professione» che si esercitava, come
oggi si fa lungo le Statali, allora sulle mura. Da cui la famosa frase
delle mamme ai bambini che chiedevano soldi per qualche sfizio: «Varda
che mi i s-chei no i trovo mia su e mura».
( da La Tribuna, 29 agosto 2008)